Come è noto, Carlo Collodi, pseudonimo di Carlo Lorenzini, scrisse i primi capitoli di Pinocchio quasi per gioco prima del 12 dicembre 1880. E tuttavia, per ragioni prettamente editoriali, dovette aspettare ben sette mesi prima di vederli pubblicati.

La storia di un burattino nacque sul “Giornale per i Bambini”, il settimanale allora diretto da Ferdinando Martini. Le prime puntate uscirono infatti a partire dal 7 luglio 1881, per concludersi, secondo le intenzioni dell’autore, il 27 ottobre 1881, data in cui fu pubblicato il XV capitolo; quello appunto che si concludeva con la morte di Pinocchio appeso a un albero. Sappiamo infatti che a quel punto Collodi riteneva conclusa quella che egli stesso ebbe a definire una “bambinata”. E tuttavia, al di là delle intenzioni dell’autore, non sarebbe stato così.
A determinare la ripresa del progetto ci fu da una parte l’indignata reazione del pubblico infantile, insorto per chiedere la continuazione delle avventure del burattino; dall’altra l’insistenza del direttore del “Giornale” Ferdinando Martini, che era rimasto positivamente sorpreso dall’inaspettato successo del libro. Di qui la decisione di Collodi di rimettersi al lavoro, facendo seguire, alla prima parte, una seconda, scritta in tempi diversi e organizzata secondo una disposizione della materia narrativa per “blocchi”: capitoli XVI-XXIII (16 febbraio-23 marzo 1882); capitoli XXIV-XXIX (4maggio – 1° giugno 1882); capitoli XXX-XXXIV (23 novembre 1882-25 gennaio 1883). Tale divisione, per altro, serve a spiegare quel carattere provvisorio e stratigrafico che caratterizza il libro nel suo complesso, non a caso apparso ai critici più compatto e strutturato nella prima parte che nella seconda.

Ma le sorprese per i piccoli lettori non finivano qui. Ai primi di febbraio del 1881, l’editore Felice Paggi, senza por tempo in mezzo, dopo aver affidato l’illustrazione delle varie puntate ad Enrico Mazzanti, decideva di pubblicare le varie puntate in volume, con il titolo Le avventure di Pinocchio.

Va infine detto che il libro, uscito nel 1883, all’origine era stato pensato per essere collocato tra i titoli della già ragguardevole collana di “amena lettura” che, ideata per i ragazzi, era stata editorialmente concepita – alla stregua di altre collane dedicate alla scuola – con il fine dichiarato di formare i futuri cittadini italiani.In realtà, più che risultare funzionale a fini didattici, come dimostra l’accattivante dizione di “amena lettura”, il libro di Collodi apparve da subito rientrare, secondo il giudizio espresso dai suoi primi critici, nel filone ben più impegnativo del bildungsroman – romanzo di formazione -, adatto a stimolare la riflessione e il pensiero oltre che la fantasia – non solo dei lettori giovanissimi o giovani.
Basterebbe ricordare che qualche anno prima Giovanni Verga, con la sua pubblicazione della raccolta di novelle Vita nei campi, si era occupato della condizione giovanile, regalandoci due figure straordinarie di adolescenti, quelle di Rosso Malpelo e Jeli il pastore, anch’essi destinati ad occupare un posto non secondario nell’ambito, tout court, della nostra tradizione letteraria. Situato in tale contesto, Pinocchio si prestava dunque a essere giudicato e letto nei modi più diversi, data la sua straordinaria natura favolosa, fantastica, educativa, morale, teologica, “di cui sono consentite fruizioni differenziate per età, per cultura, per interessi, per differenti posizioni in campo estetico o ideologico”.

D’altro canto, che l’impegno pedagogico, nell’Italia post-unitaria, fosse avvertito come esigenza primaria, non era una novità: basti pensare, per tutti, ad uno scrittore come Edmondo De Amicis. Il problema che scrittori e critici successivi si posero fu invece quello di cercare di comprendere da una parte come, in Collodi, fosseriuscito a mediare quella sua iniziale tendenza alla pedagogia con il corrosivo umorismo delle sue opere precedenti; dall’altra come questo suo umorismo fosse stato declinato ne Le avventure di Pinocchio”, che sono – come ebbe ad osservare Angiolo Orvieto – “tutte luce di gaiezza, tutto scoppiettante di spirito di monelleria”.
Insomma, la domanda alla quale ancor oggi si attende risposta è la seguente: quale rapporto intercorre tra Pinocchio e l’identità stessa degli italiani, divenuti – dopo i furori risorgimentali – i protagonisti assoluti della Nuova Italia? Sul piano letterario, invece, una parola decisiva in tal senso ci è stata fornita da Daniela Marcheschi, che ha scritto: “Che, in tempi di cosiddetta ‘globalizzazione’, Pinocchio sia un capolavoro, per cui l’attributo di ‘universale’ appare quanto mai calzante, non è dunque solo l’effetto degli strabilianti numeri dell’ininterrotto successo editoriale o della sua attitudine a muovere la fantasia, lo stile, la creatività di tanti altri autori italiani e stranieri, spinti ripetutamente dal bisogno di misurarsi con il suo strano protagonista di legno e di carne.
Il fatto è che il romanzo di Collodi sembra realizzare quello che, nelle Avventure di Pinocchio, è invece uno dei più comici e amari inganni del burattino: una specie di Campo dei Miracoli cartaceo, dove la fioritura delle parole e degli eventi, che queste ultime incarnano, infondono però vita reale agli ‘zecchini d’oro’ della letteratura moltiplicandone la potenza immaginativa, l’energia di rappresentazione e l’inesauribile capacità di parlare ai suoi lettori nel tempo e a ogni latitudine”.

Italo Calvino, d’altro canto, in un celebre articolo del 1981, scritto per il centenario della nascita del celebre burattino – dal titolo Ma Collodi non esiste –, aveva osservato con una buona dose di bonomia:
“Pinocchio ha cent’anni. La frase suona strana. In due sensi: da una parte un Pinocchio centenario non si riesce a immaginarlo; dall’altro viene naturale di pensare che Pinocchio ci sia stato sempre; non ci si immagina in un mondo senza Pinocchio. Eppure l’esattezza bibliografica vuole che Pinocchio abbia cominciato a esistere contemporaneamente a un nuovo settimanale, il Giornale per i bambini, diretto da Ferdinando Martini, che proprio nel suo primo numero (Roma, 7 luglio 1881) pubblicò la prima puntata de La storia di un burattino di Carlo Collodi”. Nel suo scritto, l’autore di Fiabe italiane, dopo aver ripercorso ancora una volta i vari punti di vista via via espressi dalla critica sul celebre burattino – religioso, psicoanalitico, pedagogico, morale etc. – ricollegava, nella sua analisi, la conclusione del suo ragionamento all’inizio con talune davvero acute osservazioni: “In tutto questo il grande assente è il signor Collodi, come se il libro fosse nato da solo come il suo eroe da un pezzo di legno, senza neppure un Geppetto a sgrossarlo. In verità, più troviamo in Pinocchio motivi di interesse, meno riusciamo a incuriosirci del suo autore, uomo di cui, quel che si sa lascia indifferenti e quel che ne resta in ombra non ha fascino di mistero”.
Ebbene queste parole, benché suggestive, sono sicuramente spiazzanti, se non altro perché vanno nella direzione esattamente contraria a quella indicata più di recente dalla Marcheschi, laquale, in materia pinocchiesca, riteneva al contrario che ci fosse una lacuna da dover colmare, ed anche al più presto: quella riguardante proprio la figura di Carlo Collodi, scrittore a tutt’oggi da reputare “molto famoso ma anche, in qualche modo, ‘segreto’”.
In realtà, come apparve evidente fin dagli inizi, il libro – considerato dai critici come abbiamo detto opera di “formazione” – andava ben oltre i ristretti limiti di tale definizione. E ciò avrebbe trovato conferma nella critica di poco successiva, la quale – di volta in volta enfatizzando la natura favolosa, fantastica, educativa, morale, teologica del romanzo – finiva poi per riconoscerne l’afflato universale, in quanto di esso “sono consentite fruizioni differenziate per età, per cultura, per interessi, per differenti posizioni in campo estetico o ideologico”.
Del resto, solo chi, come Collodi, aveva impostato il suo proprio lavoro “a inseguire il fulmineo percorso dei circuiti mentali che catturano e collegano punti lontani dello spazio e del tempo”, poteva comprendere le ragioni profonde del successo, presso i bambini e non solo, di un capolavoro della letteratura per l’infanzia, che rimane a tutt’oggi uno dei più letti ed amati a livello planetario.
Fonte: Il Pepeverde, n.11 2021