«Una sera il Professor Grammaticus correggeva i compiti dei suoi scolari. La domestica gli stava vicino e lavorava ininterrottamente per far la punta alle matite rosse, perché il Professore ne consumava moltissime». Così nel 1964 scriveva Rodari nel Libro degli errori. Ma correggiamo ancora con la penna rossa? O magari per sembrare più democratici, innovativi, utilizziamo diversi colori di penna meno aggressivi del simbolico e temuto inchiostro rosso?
Alcuni docenti, soprattutto in prima elementare utilizzano faccine e adesivi, abbiamo visto persino semafori che ripropongono schematismi e attribuiscono all’errore rumore e risonanza. Alcuni bambini piangono di fronte al semaforo rosso e qualche genitore pone rimostranze. Correggere un errore non è mai un intervento neutro. Quando si tratta di errori ortografici, correggere sottende inevitabilmente un’idea di lingua, e, qualora si attribuisse all’ortografia un’importanza decisiva, potremmo imbatterci in un tranello. Secondo De Mauro, tale modello parte dall’idea che «la lingua sia un insieme di frasi; le frasi sono fatte di parole; e le parole sono fatte di lettere.
In base a questo modello, le lettere e le regole grafiche sono viste come elementi primi d’una lingua; e l’acquisizione di tali elementi è alla base di ogni altra acquisizione. Quindi gli errori in qualche modo vanno corretti. Ma quali strategie vogliamo adottare? Sappiamo che la correzione meccanica non produce efficacia a lungo termine. Lo stesso Tolstoj, quando si era direttamente impegnato a fare da maestro ai bambini e ai ragazzi che vivevano in campagna sosteneva come insegnare ascrivere vuol dire prima di tutto interessare, coinvolgere i bambini, stimolarli a scrivere storie, lasciarli liberi nello scrivere in modo che possano esprimere idee, sensazioni, emozioni, anche se capita di fare errori di ortografia.
Non è davvero necessario sfinire i bambini con esercizi ortografici, umiliarli nelle prime classi della primaria. Nel momento, invece, in cui si pongono con la massima disponibilità a superare l’errore, i bambini sono felici di scrivere in modo corretto e allora spetta a noi educatori risolvere il problema. Non è di certo una questione di disattenzione, svogliatezza, potrebbe esserlo soltanto qualora ci fossero difficoltà legate a dei disturbi, ma oggi è davvero semplice provvedere alla diagnosi. D’altra parte il problema esiste, sentiamo troppo spesso le lamentele degli insegnanti della scuola secondaria che rimproverano gli insegnanti della primaria perché non sono stati in grado di perseguire la correttezza ortografica con i loro alunni. Il nodo è questo, si impiega tempo per l’ortografia, non sempre con i risultati sperati.
Dal nostro punto di vista e dall’esperienza verificata sul campo, possiamo testimoniare una via possibile, divertente e decisamente al di sopra di tutti i possibili esercizi monotoni e deprimenti di per sé in merito all’ortografia. Insomma l’errore non può mutare in orrore. Se l’errore si trasforma in un campo di allegria, ironia e, come magistralmente ci ha insegnato Gianni Rodari, se dall’errore nascono storie siamo molto più vicini alla correttezza ortografica di quanto si possa immaginare. Prioritariamente è necessario interessare i bambini a scrivere in modo appassionante, scrivere ciò che gli piace, ciò che li emoziona abbandonando definitivamente insulse modalità, ad esempio argomenti prefissati in modo rigido, laddove il testo è già scritto nella testa del docente, per questa ragione è l’insegnante a doversi appassionare, altrimenti la scrittura difficilmente nascerà. Nelle prime classi è ancora insostituibile, appena i bambini iniziano a scrivere, la produzione del testo libero secondo l’accezione di Freinet. Senza mai fare osservazioni sull’ortografia che è una diversa abilità, da apprendere.
Quale sarebbe il rischio di contestare a un bambino gli errori?
Sarebbe notevole: potrebbe sentirsi inadeguato, perché c’è un segno nel quaderno, pur essendosi sforzato, pur avendo lavorato molto per dire qualcosa di sé, per inventare una storia, ecc. Occorrono tatto e competenze, è fin troppo facile rilevare gli errori ortografici ed è facile far sentire un bambino inadeguato.

Parafrasando Gianni Rodari «Se si mettessero insieme le lagrime versate nei cinque continenti per colpa dell’ortografia, si otterrebbe una cascata da sfruttare per la produzione dell’energia elettrica».
Impariamo a giocare con l’errore, a riderci sopra. Il colore giallo senza la i diventa un gallo; la panna con una sola n si scioglie; una chiave senza h non apre di certo né porte né cancelli. Invece un quore magistralmente curato con la vitamina C guarirà di certo, tutte le ciambelle avranno il buco se una L non si perde la strada…
«L’errore creativo» si ricorda con molta più facilità e i bambini sono spontaneamente avviati all’autocorrezione. A volte ci domandiamo se in questo transito culturale alla ricerca diperfezionismi ridicoli siamo ancora in grado di accettare gli errori dei bambini, lasciarli sbagliare, ridere dello sbaglio, di insegnargli ad imparare dagli errori. Scrive ancora Rodari:
«Una volta a un bambino che aveva scritto, insolito errore, cassa per casa suggerii di inventare la storia di un uomo che abitava in una cassa. Altri bambini si buttarono sul tema. Ne uscirono molte storie: c’era un uomo che abitava in una cassa da morto, un altro era così piccolo che gli bastava una cassetta per la verdura per dormirci, finiva al mercato tra broccoli e carote, qualcuno pretendeva di comprarlo un tanto al chilo. In ogni errore giace la possibilità di una storia. la parola giusta esiste soltanto in contrapposizione a quella sbagliata».
Fonte: Il Pepeverde , n.9 2021